Piero Sanjust di Teulada
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Piero Sanjust di Teulada

Piero Sanjust di Teulada, imprenditore, è stato uno degli ultimi grandi dandy italiani

Piero Sanjust di Teulada (1923-1996). Uno degli ultimi grandi dandy italiani. Manager alla Dalmine, amministratore delegato e presidente della Siderexport e successivamente dell’Insurance Brokers Marsh e McLean Italia, amava, supremo snobismo, un po’ di disordine nel vestire. Meglio se l’abito aveva un piccolo difetto e, per questo, rifiutava la terza prova dai sarti.

Gli piacevano le camicie a righe dai colori forti e comprava le stoffe a Genova da Crovetto. Aveva 200 paia di scarpe e adorava quelle vecchie di 30 anni. Se le faceva fare su misura da Gatto. Non indossava mai un pullover sotto la giacca che teneva sempre aperta. I cappelli (non usciva mai senza) li sgualciva apposta. Spesso, portava i guanti, ma se li metteva di rado, preferendo tenerli in mano. Non rinunciava mai alla cravatta che giudicava “uno stato d’animo”. L’asola, al rever dello smoking, la voleva con il bordo rosso.

Fu lui a lanciare la moda dell’orologio sul polsino. Non per vezzo ma per necessità. Lo racconta lui stesso a Luigi Settembrini e Chiara Boni nel volume Vestiti, usciamo (Mondadori): “Eravamo ragazzi, a Roma, e Gianni (Agnelli) era amico nostro e ci vedevamo spesso. Alcuni di noi non avevano molti quattrini e tra questi io: non potevo quindi permettermi di possedere più di quattro o cinque camicie. Per non rovinare l’orlo dei polsini con lo sfregamento dell’orologio che aveva il braccialetto di metallo, io lo portavo sopra il polsino sinistro. A Gianni la cosa piacque e la imitò. E sì che lui di camicie ne aveva certamente a sufficienza…”

L’aspetto imprenditoriale di Piero Sanjust di Teulada

Aveva fiuto per i grandi sarti, anche quelli potenziali. Fu lui, nel 1964, a finanziare, con una fideiussione, l’apertura della sartoria di Domenico Bombino che aveva conosciuto al Bar Giamaica di Milano, il mitico caffè latteria in via Brera. A chi lo intervistò per un ritratto da pubblicare nel volume che, a cura di Giannino Malossi, accompagnava la mostra di Pitti Immagine, La regola estrosa/Cent’anni di eleganza maschile italiana (lui era fra quei 100, insieme, fra gli altri, a Gabriele D’Annunzio, Umberto di Savoia, Amedeo d’Aosta, Curzio Malaparte e Luchino Visconti), raccontò di averne capito il talento perché cuciva sotto il rever la controasola per il fiore.

Oltre che Bombino, il suo sarto era Donini-Augusto Caraceni. Si vestiva partendo dalla camicia che sceglieva e appoggiava sul letto per costruirci attorno la “mise” della giornata. In quel testo, diceva: “Per scavare nelle origini della mia tensione verso lo stile, bisogna forse sapere che io sono nato sesto maschio in una famiglia di nove figli e che ho vestito per anni i panni smessi dai fratelli maggiori (…) Ho la certezza di avere indossato il primo abito “intonso” quando andai all’Accademia Navale e da lì si scatenò una reazione di concupiscenza”.

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