Cappello da uomo
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Cappello da uomo

Cappello da uomo: negli anni ’20, l’Italia esportava in tutto il mondo circa 12 milioni e mezzo di cappelli di feltro e oltre 11 milioni di cappelli di paglia o di truciolo

Complessivamente le aziende italiane produttrici erano più di un migliaio, con circa 20 mila dipendenti. Dalla metà degli anni ’50, è cominciato l’inarrestabile declino: il cappello, fino a quel momento assolutamente indispensabile in qualsiasi guardaroba maschile, passò di moda. Un po’ alla volta, i vecchi cappellai cedettero la mano. Sparirono antiche botteghe dedicate alla produzione di cappello da uomo.

I modelli piuma, leggerissimi e pieghevoli che possono essere contenuti nel fondo di una tasca, gli enormi cappelli da cow-boy, i classici Dobbs e le svariate forme che la moda ha creato nel corso degli anni, ora cambiando le dimensioni, ora rialzando o abbassando la tesa, ora elevando o riducendo il cocuzzolo, non ebbero più spazio nel concetto di eleganza, se non in quello di pochi, pervicaci tradizionalisti. I centri principali della produzione si spopolarono.

I cappelli di feltro un tempo venivano prodotti in decine di fabbrichette e botteghe sparse in tutta la penisola:

da Alessandria a Monza, da Biella a Intra, da Voghera a Sagliano Micca, da Spinetta Marengo ad Alzano Maggiore, da Montappone a Montevarchi a Prato, da Maglie a Cremona. Un po’ dovunque esistevano piccole industrie che realizzavano prodotti di alta qualità. Ancora nella metà degli anni ’30, Monza inondava l’universo di lobbie alla Verdi, di cappelli Orione e Manciuria, esportando l’80 per cento di quanto produceva. Fino a pochi anni prima era arrivata a mettere insieme decine e decine di fabbriche e fabbrichette, tanto da dar lavoro a oltre 3 mila operai. Ma il mercato del cappello da uomo, in Italia, era già in ribasso. Per vivificare il settore, la pubblicità ammoniva: ‘Il cinesino per farsi bello taglia il codino e mette il cappello, mentre il paino getta il cappello e porta il codino’. Fu un declino inarrestabile, anche se non tutto è stato archiviato.

A Monza, una ventina di cappellifici brianzoli resistono ancora, ma lavorano soprattutto per le donne.

In Italia, tuttavia, il dominio assoluto lo ha sempre detenuto la ditta Borsalino. Giuseppe Borsalino, il capostipite, emigrò in Francia verso il 1840. A Parigi si perfezionò nell’arte della cappelleria e, dopo lunghe peripezie, tornò in Italia nel 1857. Ad Alessandria, in piazza S. Lucia, aprì il suo primo laboratorio con annessa vendita. L’azienda prosperò e ben presto il marchio divenne famoso in tutto il mondo. Giovanni Giolitti portava esclusivamente cappelli di questa marca, e un Borsalino grigio aveva in capo John Dillinger quando fu ucciso in un conflitto a fuoco con la polizia americana nel maggio del ’34. Al Capone, nei momenti di massimo splendore, si faceva confezionare espressamente dalla ditta piemontese i copricapo per sé e per i più fidati boy. Pretendeva che i feltri fossero di pelo di castoro mischiato a quello di coniglio garenne.

E infine Borsalino è il titolo di un celebre film con Jean-Paul Belmondo.

Cappello da uomo
Cappello da uomo Borsalino

Caratteristica fondamentale per un cappello di prestigio: il marocchino, ovvero quella striscia di pelle che cinge internamente il cappello, deve sempre essere di capretto e provenire da Liegi, in Belgio. Il nastro, invariabilmente di raso, e la fodera di seta completano il capolavoro. E così i pochi marchi che ancora producono simili sciccherie li fanno ancora come un secolo fa e con quelle stesse antiche attrezzature tuttora in uso: le forme in legno, le prese in ghisa, i vaporizzatori a molla, i ripiani in ciliegio ricurvo.

Certo, l’abilità artigianale per un cappello da uomo, trasmessa all’interno degli stabilimenti da una generazione operaia all’altra, va lentamente scomparendo, con lo stesso ritmo con cui vengono piano piano rimpiazzati gli antichi strumenti del mestiere con moderne attrezzature. Certo, non si lavorano più le pelli di coniglio, ma si utilizza pelo già trattato, di provenienza australiana o argentina; restano però le quaranta e passa fasi di lavorazione, dalla soffiatura all’imballaggio, che nel giro di 7-8 settimane producono un cappello di feltro. Solo così il pregiato pelo di lepre o coniglio selvatico, rifinito, guarnito e proposto in più di 50 colori, diventa cappello e può fregiarsi del nome di marchi prestigiosi come Borsalino, Panizza, Rossi, Barbisio e Bagnara di Cardanello.

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