Moda e futurismo
F,  Indumenti, icone di stile, stili e tessuti

Futurismo e moda

Il Futurismo e la moda: l’arte negli abiti

Futurismo e moda non sono voci antitetiche almeno per questa ragione: che Filippo Tommaso Marinetti, il fondatore del movimento, non solo evitò per tutta la vita di deplorare le insostenibili leggerezze della moda (come fanno di solito i poeti e gli intellettuali più pensosi) ma la assunse addirittura, la moda,  come il codice di comportamento ideale per gli artisti destinati davvero alla grandezza. Artisti invitati perentoriamente a rinnovare i loro modelli a ogni stagione come i couturiers di Francia rinnovavano i loro: a quell’epoca, evidentemente, lo stilismo italiano era ancora di là da venire.

Futurismo e moda
Moda Futurista di Giacomo Balla

I manifesti

Se questa fu l’ideologia del movimento, non dovrà allora meravigliare che proprio nelle loro proposte di abbigliamento i futuristi abbiano dato, soprattutto per merito di Balla, e poi di Depero, Prampolini, Thayaht e tanti altri, alcune indicazioni preziose per il costume quotidiano del XX secolo. Innanzitutto con le mille intuizioni profetiche rintracciabili soprattutto in due manifesti per questo aspetto fondamentali. Il primo di Balla, Le vêtement masculin futuriste, 1914, del quale esiste una variante in italiano, guerrescamente intitolata Il vestito antineutrale. Il secondo, Ricostruzione futurista dell’universo, 1915, firmato a quattro mani dallo stesso Balla e da Depero.

Nella Ricostruzione futurista, per la verità, il tema dell’abbigliamento non è toccato nella sua sostanza specifica. Tranne che per un accenno al “vestito trasformabile” nell’ottica di una rifondazione del mondo che tenga conto dei nuovi ritmi produttivi e sociali. Ma anche qui si ha comunque la conferma che le abituali parole d’ordine futuriste, tra cui la velocità e il dinamismo, non possono che riflettersi direttamente nella moda. Così che il vestito antineutrale prefigurato dal manifesto omonimo, proprio all’incombere della prima guerra mondiale, non potrà che essere interventista, colorato, fosforescente, agilizzante, igienico, gioioso, antiteutonico e via di questo passo.

Quel che si propugna, in pratica, è un abbigliamento più comodo e funzionale (fortunatamente adatto anche in tempi di pace) che abbandoni il nero, il grigio e le mezzetinte togate, vietandole anche ai becchini, se necessario, per portare lo slancio futurista giù per le strade, nei salotti, a teatro. E non sarà un caso, dopotutto, se alcune delle prove più convincenti di un tale abbigliamento le troveremo proprio sul palcoscenico.

Il futurismo tradotto in moda

È vero, d’altra parte, che i seguaci di Marinetti, irriducibili assertori di un rapporto sempre più stretto tra l’arte e la vita, non potevano assolutamente limitarsi alla pura proposta ideologica. Dovevano passare per forza di cose alle cosiddette vie di fatto. E ci passarono (a volte solo nei bozzetti o nei discorsi da caffè). Enfatizzarono anche in questo campo il “cattivo gusto”. Gusto fatto di squilibri e asimmetrie, come il solo antidoto ancora efficace contro il mediocre “buon gusto” dei borghesi.

E dài, allora, con gilet sgargiantissimi tagliati in tessuti dal disegno inusitato. Cravatte di metallo e lampadine trasformate in cravatte; giacche da sera con una manica tonda e l’altra quadrata; cappelli e copricapi di ogni foggia e dimensione. Tute arcobaleniche a coni e losanghe ritagliate e messe insieme in stoffe diversissime l’una dall’altra. Senza contare le scarpe spaiate anche nel colore e una quantità inenarrabile di accessori. Ma anche i famosi “modificanti”, che bastava applicare qua e là con speciali “bottoni pneumatici”, a gusto del portatore, per cambiare in un lampo la stessa struttura dell’abito.

Depero, Marinetti e Cangiullo nel 1924 con panciotti futuristi
Depero, Marinetti e Cangiullo nel 1924 con panciotti futuristi

È appena il caso di aggiungere che una tale nozione di abbigliamento, destinata a riverberarsi fino agli anni ’50 grazie agli ultimi futuristi ormai novantenni, mirava soprattutto alla liberazione degli uomini, essendo stata la moda femminile “sempre più o meno futurista”. Slogan che si leggeva in un accattivante, ruffiano manifesto del 1920: dove, è chiaro, il figlio maschio del Futurismo rendeva precauzionalmente (quanto italianamente) omaggio alla mamma.

La tuta pigiama di Balla

Resta che quella esperienza non è andata perduta. Nonostante la spiacevole circostanza che gli abiti futuristi furono quasi sempre indossati dai loro creatori o dalle loro pazienti compagne. Fa tenerezza rivedere ancora oggi, religiosamente conservata, la tuta-pigiama (come chiamarla altrimenti?) con la quale il vecchio Balla si aggirava per la propria casa romana. Costretto a dipingere ritratti di signora per nutrire le figliole, ma non ancora domo, non ancora disperato. Come se Balla già sapesse, che un giorno i migliori stilisti italiani, quelli più attenti al mondo in cui vivono, avrebbero preservato il suo stile per il futuro. O almeno una sua scintilla.

Moda e futurismo
La tuta di Balla

Leggi anche:

Futurismo il 20 Febbraio 1909 il primo manifesto sul Figaro

Mario Sironi dal futurismo al classicismo

Ente nazionale della moda