David Bowie
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David Bowie (8 Gennaio 1947-10 Gennaio 2016)

David Robert Jones, più conosciuto come David Bowie, nasce a Brixton, Londra, l’8 gennaio 1947. Il fratellastro Terry soffre di schizofrenia e passerà lunghi anni in ospedale psichiatrico, dove morirà suicida nel 1985.

David Bowie: uno, nessuno, centomila

Questa figura è fondamentale nella crescita di David, influenza la sua vita e la sua formazione. Terry gli fa conoscere autori come J. Kerouac, A. Ginsberg, E. E. Cummings, lo fa avvicinar al jazz e al rock’n’roll americano. La malattia del fratellastro rappresenterà a lungo un’ossessione per David, che vivrà sempre con la paura di impazzire a sua volta; quasi a voler esorcizzare la follia e sublimando il turbamento per la morte di Terry, scriverà nel 1993 il brano Jump (They Say).

David Bowie Nel 1957 la famiglia Jones si trasferisce nel quartiere periferico di Bromley, dove David frequenta la Bromley Technical High School, per diventare grafico pubblicitario. Nel ’59 gli viene regalato il suo primo sassofono e così inizia a studiare musica più seriamente. Un giorno, all’uscita da scuola, ha uno scontro con l’amico George Underwood, che gli sferra un pugno colpendogli l’occhio sinistro, che rimane lesionato e che assume un colore rossastro che gli vale il soprannome di red orb. Ma ne fa anche uno dei suoi segni particolari, infatti un occhio gli rimarrà sempre più azzurro, rispetto all’altro che è del suo colore naturale verde-marrone.

Sono gli anni Sessanta e la Swinging London vanta una scena rock sfavillante con i Beatles, i Rolling Stones, i Pink Floyd, gli Who e gli Animals, per citarne alcuni. Il giovane David Bowie ne è profondamente affascinato, canta, suona il sax e prova a sfondare alla guida di gruppi underground come Manish Boys, The Konrads, King Bees e Buzz. Sogna di diventare il nuovo Little Richard, il suo idolo fin dall’infanzia.

LA NASCITA DI DAVID BOWIE

Il manager Kenneth Pitt gli suggerisce di adottare il cognome Bowie per evitare confusione con Davey Jones dei Monkees. Inizia un periodo da solista, condizionato dall’indecisione stilistica: non sa decidersi tra il folk britannico, le tentazioni psichedeliche della Summer of Love californiana e il revival del blues. Il suo primo album, David Bowie, del 1967, mostra un cantautore acerbo e zoppicante.

Bowie si sente un pesce fuor d’acqua nella sua generazione, non trova la sua strada e non si conforma alla società, cerca rifugio nella religione buddhista. Trascorre tre mesi in isolamento monastico con quattro lama tibetani in Scozia, insieme alla compagna Hermione Farthingale.

Nel 1969, quando l’uomo sbarca per la prima volta sulla Luna, David Bowie fa uscire il suo singolo Space Oddity. Il brano è la prima ballata spaziale della storia del rock e il capostipite di quel filone fantascientifico che diverrà il segno distintivo del suo repertorio.

David Bowie nel 1969.
David Bowie nel 1969.

Bowie cresce come cantante ma anche come performer, grazie all’incontro con Lindsay Kemp, nel 1967, un mimo-ballerino, da cui apprende il linguaggio del corpo, il controllo di ogni gesto, la carica intensa e drammatica di ogni movimento. Impara a stare sul palco.

Il 20 marzo 1970 Bowie sposa l’americana Angela Barnett, conosciuta perché frequentavano lo stesso ragazzo. Il matrimonio durerà un decennio e regala a David il figlio Zowie.

David Bowie assiste al concerto degli Hype, un quartetto di Londra che tira giù il palco del Roundhouse. La sua attenzione si concentra sull’effemminato cantante dalla chioma riccioluta, vestito con abiti di seta multicolor. È in questo stile che Bowie si identifica: seppellendo il timido menestrello folk degli esordi, imbocca definitivamente la via del rock sensuale e ambiguo.

Esce l’album The Man Who Sold The World, 1970: in copertina un Bowie in abiti femminili. I testi sono grotteschi, in bilico tra futurismo e orrore, il Superuomo di Nietzsche e le perversioni sessuali.

David Bowie matura un’estetica che si basa sull’ambiguità e sul trasformismo. Primadonna altezzosa, l’uso spregiudicato della sua immagine, la sua ostentata artificiosità, il suo voler essere un artista d’avanguardia lo trasformano nel Duca Bianco che tutti oggi conosciamo.

IL GLAM ROCK

Bowie sposa apertamente il glam rock esploso in Inghilterra sull’onda dei T. Rex di Marc Bolan, che diventerà suo grande amico. Hunky Dory è il risultato di questo sottogenere musicale.

Trionfano il disimpegno, il travestitismo e l’ambiguità sessuale, in un profluvio di lustrini e paillettes, boa di piume e rimmel, stivali e tutine spaziali. “Rock’n’roll col rossetto”, lo ribattezzerà John Lennon. Bowie, che già nel precedente album aveva anticipato la tendenza per il suo look, realizza di aver trovato la sua strada. La copertina del nuovo disco lo ritrae in una posa fatale alla Greta Garbo.

Mentre il rock si autocelebrava nelle grandi adunate pacifiste o nelle comuni hippie, il warholiano Bowie si specchiava nel suo camerino alla ricerca della giusta maschera per incantare il pubblico. La risposta verrà dalla combinazione impossibile tra un essere interstellare e un attore del teatro giapponese Kabuki.

David Bowie A METÀ TRA SUPERUOMO E ALIENO

Forse nessuno avrebbe scommesso un penny su David Bowie, androgino  in calzamaglia, dalla chioma color carota e dal trucco da drag queen di basso borgo. Un essere sgraziato e dannatamente kitsch, che sembra uscito da un fumetto di fantascienza trash. Eppure, sarà proprio nei suoi panni che Bowie raggiungerà per la prima volta quella fama mondiale a lungo inseguita e mai più mollata.

The Rise And Fall Of Ziggy Stardust And The Spiders From Mars è un concept album su ascesa e auto-distruzione di un “plastic rocker”. E’ lui “l’uomo che cadde sulla terra”, il messia di una rivoluzione rock che dura una stagione sola, il tempo che passa tra la sua ascesa e la sua caduta.

In questa parabola c’è tutta la rappresentazione dell’arte di Bowie: la messa in scena del warholiano “quarto d’ora di celebrità”, l’edonismo morboso di Dorian Gray, la parodia del divismo e dei miti effimeri della società dei consumi e, non ultimi, i presagi di un cupo futuro orwelliano. “Extraterrestre”, e quindi libero dai tabù sessuali che incatenano l’umanità, Ziggy Stardust è la quintessenza dello spirito glam. In lui convivono passato e futuro: figlio dell’aura decadente del cabaret mitteleuropeo anteguerra, è proteso nello slancio avvenirista dell’Arancia Meccanica di Kubrick (1971), le cui note iniziali apriranno gli show dello Ziggy Stardust Tour.

David Bowie nei panni di Ziggy Stardust.
David Bowie nei panni di Ziggy Stardust.

E’ la maschera che incorpora tutti gli stereotipi del rock filtrati attraverso la lente grottesca del glam. Una caricatura del divo, destinato a essere idolatrato dal pubblico e stritolato dallo star-system. Un genio mutante, dunque. Ma il trasformismo è solo la più appariscente tra le arti di questo indecifrabile dandy, incarnazione di tutte le fascinazioni e contraddizioni del rock e, in definitiva, della stessa società occidentale. Nessuno come lui ha saputo mettere a nudo i cliché della stardom, il rapporto morboso, ma anche ipocrita, tra idoli e fan, il falso mito della sincerità del rocker, l’assurdità della pretesa distinzione tra arte e commercio.

Bowie è stato anche uno dei primissimi musicisti a concepire il rock come arte globale, aprendolo alle contaminazioni con il teatro, il music-hall, il mimo, la danza, il cinema, il fumetto, le arti visive.  E’ grazie ai suoi show che il palcoscenico del rock si è vestito di scenografie apocalittiche, di un’estetica decadente e futurista al contempo, retaggio di filosofie letterarie e cinematografiche, ma anche dell’arte di strada dei mimi e dei clown. E in ambito musicale la sua impronta è stata fondamentale nell’evoluzione di generi disparati come glam rock, punk, new wave, synth-pop, darkgothic, neosoul, dance.

LA MORTE DI ZIGGY

E’ inquieto e volubile, cerca nuove sfide, nuovi pianeti da esplorare. Così, alla fine del tour di promozione dell’album, compie un gesto simbolico e plateale: si sbarazza del suo ingombrante alter ego Ziggy Stardust facendolo “morire” sul palco. Di lì a poco anche l’epopea glam si dissolverà, nella polvere di stelle del suo eroe.

Pragmatismo di un artista che, uccidendo il personaggio che gli aveva regalato l’anelata celebrità, sa cogliere l’intima essenza delle dinamiche che governano i comportamenti del pubblico rock, che sotterra artisti con la stessa velocità con cui li osanna. Bowie non ha alcuna intenzione di restare schiacciato da un personaggio che avrebbe ben presto stancato il pubblico; la filosofia dei cambiamenti repentini finalizzati a tenere desta l’attenzione verso di sé, rivelatasi molto di più di una felice intuizione, lo guiderà negli anni a venire, fino a trasformarlo in un accorto businessman.

Per Bowie inizia un momento di transizione, ma anche di crisi: ne è la prova l’album Diamond Dogs, del 1974, in cui si presenta in copertina come un essere mostruoso, metà uomo, metà cane. Ispirato da Ragazzi Selvaggi di William Burroughs e da 1984 di Gorge Orwell, l’album anticipa l’umore della futura generazione della new wave, dove la paura per il futuro tecnologico travolge. Bowie dichiara di aver registrato l’intero album sotto effetto della cocaina.

Dopo Ziggy, anche il Bowie glamorous è ufficialmente morto. Quello che rinasce, novella araba fenice, è un dandy che ha smarrito per strada zatteroni, paillettes e un bel po’ di mascara, ma ha conservato un look ambiguo e inquietante.

IL DUCA BIANCO IN AMERICA

Bowie si stabilisce a Los Angeles, dove inizierà uno dei periodi più cupi e drammatici della sua esistenza.

North Doheny Drive, Bel Air. Qui sprofonda in un caos narcotico, preda di pusher e strozzini, tormentato dai suoi demoni. Il suo matrimonio è al termine, i rapporti con i manager sono burrascosi, è scheletrico ed emaciato come un vampiro. Si ritira nel suo appartamento prigioniero delle sue fobie.

Gli amici che lo vanno a trovare trovano un Bowie circondato da pareti scarabocchiate da enormi pentagrammi, con la sua urina nel frigo per proteggersi dai malefici, convinto che due fan volessero impadronirsi del suo sperma per essere fecondate, per portare avanti una stirpe di esseri satanici.

Ma in questo scenario, David, al lume di candele nere che allontanano gli spiriti, partorisce un disco rivoluzionario, Station to Station. È pronto un nuovo personaggio da idolatrare, il “Duca Bianco“: pantaloni neri a pieghe, panciotto e camicia bianca, capelli rosso-biondi impomatati e tirati all’indietro. Un essere algido e aristocratico, alienato dalla paranoia urbana e isolato nel suo mondo di musica robotica. Su di lui Bowie sfogherà tutte le ossessioni del periodo, inclusa la malsana attrazione per la mitologia nazista evocata in alcune farneticanti interviste.

LA TRILOGIA BERLINESE

Bowie si trasferisce con l’assistente Coco Schwab e con Iggy Pop a Berlino, dove è subito attratto dall’atmosfera mitteleuropea della città. La scena musicale elettronica, il cinema espressionista di Lang, Murnau e Pabst, il cabaret brechtiano, la nuova pittura tedesca affascinano il suo animo decadente. In questo scenario, matura la celeberrima trilogia Low-Heroes-Lodger, frutto del sodalizio con Brian Eno.

Dopo un disco, diverse collaborazioni cinematografiche e un anno speso a scrivere, comporre, suonare e dipingere, Bowie lascia Berlino, dopo appena un anno per tornare negli Stati Uniti.

LA DEPRESSIONE ARTISTICA

Greg Gorman
David Bowie

Registrato a New York, Scary Monsters (And Super Creeps) è l’anello di congiunzione tra la fase “avanguardistica” di Bowie e la sua successiva deriva pop-dance. Anche grazie all’ennesimo cambio d’immagine, l’album raccoglie nuovi proseliti tra i musicisti che confluiranno nel movimento new romantic.

Dieci anni pieni, esaltanti, irripetibili. E infatti non si ripeteranno. Da allora in poi, la carriera di Bowie scivolerà via quasi sempre in discesa, alternando clamorosi flop a sporadici sussulti del genio che fu.

Il primo passo verso il baratro del secondo decennio bowiano viene generalmente fatto coincidere con la svolta di Let’s Dance (1983), ultimo tentativo di Bowie di dire qualcosa, in un susseguirsi di  mille intuizioni senza riuscire ad afferrarne una.

La crisi creativa viene però brillantemente mascherata dal sontuoso Serious Moonlight Tour, che celebra il mito di Bowie con coreografie mozzafiato, con un formidabile ensemble di musicisti e con una scaletta accattivante.

Distratto dagli innumerevoli interessi extramusicali e appagato dal successo planetario raggiunto, Bowie smarrisce la via e imbocca il precipizio con Tonight, nel 1984. Anche la carriera cinematografica di Bowie vira verso film di dubbio gusto. Forse è il miracoloso intento di alimentare la sua leggenda facendo musica scadente. Non sa bene cosa stesse facendo; inebriato dal successo perde l’entusiasmo. Crede di non aver più niente da dire e pensa a guadagnare, convinto di essere ormai vicino alla fine.

L’incontro con Reeves Gabrels dà una svolta alla sua depressione artistica. Un nuovo progetto lo aspetta. I Tin Machine è il gruppo del chitarrista Reeves, con cui Bowie collabora, con un esito modesto.

IL RITORNO DI DAVID BOWIE

Dopo sei anni torna da solista, con la voglia di suonare e sperimentare. Black Tie White Noise del 1993 risente dell’euforia a seguito del matrimonio  di David con la splendida modella somala Iman Abdulmajid, tenutosi a Firenze un anno prima.

Ormai svincolato dall’ansia di sbancare le classifiche, il dandy di Brixton si dedica alle più svariate attività: collabora come editorialista con il periodico Modern Painters; allestisce con Brian Eno la raccolta di fondi “War Child: Little Pieces From Big Stars”, a Londra, presso la Flowers East Gallery, coinvolgendo numi del rock come Paul McCartney, Bono, Pete Townshend e Charlie Watts; inaugura alla Cork Street Gallery di Londra la prima mostra dei suoi lavori: dipinti, sculture e due disegni per carta da parati realizzati per Laura Ashley; partecipa nei panni di Andy Warhol al film Basquiat.  E che per Bowie sia un momento di risveglio creativo lo confermerà anche il successivo album in studio.

Nel 1995 esce Outside, che rievoca il periodo berlinese, ricco di sperimentazioni elettroniche. L’ex Duca Bianco sembra risorto, sia come musicista, sia come cantante, con prove interpretative degne dei suoi anni d’oro.

Nel 1997, Bowie festeggia i suoi 50 anni con un mega-party al Madison Square Garden di New York, che riunisce amici vecchi e nuovi come Lou Reed, Sonic Youth, Robert Smith, Billy Corgan, Foo Fighters e Frank Black, tutti insieme sul palco a cantare con lui. Anche il suo look si adegua ai tempi: capigliatura da porcospino, orecchino e pizzetto mefistofelico nascondono le rughe degli anni. Bowie è riuscito miracolosamente a mantenere giovane il suo mito anche dopo vent’anni di musica, conquistando nuove schiere di fan e di musicisti-ammiratori.

ANIMALE NELLA JUNGLE MUSIC

Anziché cavalcare l’onda nostalgica del ritorno al passato, Bowie risale la corrente e si tuffa in un nuovo universo sonoro, quello dei club underground, scandito dai ritmi frenetici della jungle e del drum’n’bass.

Scritto e prodotto in sole due settimane, il nuovo album Earthling risulta un successo. Uscito dalla crisi, Bowie deve comunque portare avanti la lotta contro il tempo: il Dorian Gray del rock non accetta che gli anni passino.  L’ex glam-boy che viaggiava su Marte quando l’uomo era a malapena arrivato sulla Luna passa ogni notte sveglio, alla ricerca di una nuova sfida, fedele all’imperativo di Oscar Wild della “vita come un’opera d’arte”.

Con Hours, che esce nel 1999, il copione cambia ancora: si torna al passato, alle ballate classiche e un po’ nostalgiche. Nel complesso, però, il disco si rivela di scarso successo, dando l’impressione che la fiammata seguita al periodo Tin Machine si sia nuovamente spenta.

Nel 2002 realizza Heathenun disco piuttosto monotono, che regala qualche raro picco emotivo, soprattutto grazie alle interpretazioni, sempre memorabili, di Bowie, divenuto nel frattempo padre della piccola Alexandria Zahra Jones. Nemmeno Reality del 2003 inverte la rotta.

LA STELLA DEL ROCK VOLA NELLO SPAZIO

A 10 anni dall’ultimo lavoro in studio esce The Next Day: è la dimostrazione che il talento di Bowie non si è esaurito, ma che è ancora un artista in grado di stupire ed emozionare. A suggellare l’evento, arriva anche la più grande mostra retrospettiva mai dedicata alla sua carriera, allestita al Victoria And Albert Museum (fino al 18 luglio) e contenente 300 oggetti provenienti direttamente e in esclusiva dal suo archivio privato di New York. Si possono quindi ripercorrere cinquant’anni di carriera di una delle icone del rock attraverso lettere private, disegni, artwork, scatti e fotografie esclusive di Herb Ritts e Helmut Lang; oltre, naturalmente, ai suoi eccentrici abiti.

Forse è vero che Bowie non si potrà mai capire, ma solo seguire nelle sue zigzaganti traiettorie, nella sua sincera artificiosità. Perché i suoi personaggi sono sì il diaframma che continua a frapporre tra sé e il mondo, ma anche le testimonianze più verosimili della sua personalità.

Blackstar, che esce all’inizio del 2016, è la conferma della sua ritrovata creatività. L’esaltazione per il nuovo disco però si spegne velocemente quando il 10 gennaio 2016 David Jones Bowie si spegne dopo 18 mesi di lotta contro il cancro. La sua morte non è stata differente dalla sua vita, un’opera d’arte. Ha fatto Blackstar come un regalo ai suoi fan e ai suoi amici.

Conclusione David Bowie: uno, nessuno, centomila

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